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NINA
(A MATTER OF TIME)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 febbraio 1977
 
di Vincente Minnelli, con Liza Minnelli, Ingrid Bergman, Charles Boyer, Gabriele Ferzetti, Spiros Andros, Tina Aumont, Anna Proclemer (Stati Uniti, 1976)
Sogno e realtà, impossibilità per l'individuo di vivere il proprio sogno, le proprie illusioni, fragilità della bellezza, sono i grandi temi che Vincente Minnelli si è sforzato di dipingere (è il caso di dirlo) nella sua lunga carriera. Minnelli è stato, come Cukor, come Hitchcock, come Nicholas Ray uno dei grandi nomi del cinema americano rivelato, o rivalutato dalla critica francese degli anni Cinquanta. Quella della “nouvelle vague”, della rivista “Cahiers du Cinèma” dalla quale nascevano Godard ,Truffaut, Rohmer, Chabrol, ecc. E' stato, come Preminger, come Douglas Sirk soprattutto (il quale vive a Lugano, sono in pochi a saperlo), uno dei massimi esempi di melodramma cinematografico che si è cercato di riesaminare.

Come questo A MATTER OF TIME sembra dimostrare una volta ancora (ma è naturalmente l'opera di un quasi settantenne) è più facile difendere l'arte dell'ambientazione, dell'uso della scenografia a fini psicologici, dell'uso del colore (che Minnelli e compagni hanno eseguito esemplarmente, e che costituisce tuttora uno lezione insostituibile per i cineasti contemporanei) che non quello del melodramma. Che più difficilmente sembra adattarsi agli umori del tempo che corre.

NINA dimostra che il cinema di Minnelli è rimasto fermo a quello dei suoi tempi gloriosi. Ed è curioso, oggi nel 77, rileggere quello che diceva, negli anni altrettanto gloriosi dei Cahiers, Jean Douchet: “Esiste un universo minnelliano: lo si ama e lo si detesta. Perché il suo manierismo apparente, la sua raffinatezza e la sua finezza, nascondono un mondo terrificante: quello dei fiori velenosi o carnivori. Tutto divora, o viene divorato. In questo clima ostile, una ipersensibilità inquieta, morbosa cerca di materializzare i propri sogni, preservandosi cosi dagli attacchi della realtà che lo circonda. Speranza vana: poiché in questo universo chiuso, da serra surriscaldata, non si può crescere e svilupparsi se non nutrendosi dei sogni altrui. L'eroe minnelliano, ipersensibile ed artista quindi, è risucchiato dalla propria opera, minacciata a sua volta di distruzione nel momento stesso di creazione. In modo aereo nella commedia musicale (UN AMERICANO A PARIGI, GIGI), dove con il meraviglioso si realizza il sogno impossibile dell'unione delle aspirazioni affettive con una realtà eterna. In modo acido e crudele, nelle commedie brillanti (THE E SIMPATIA, BRIGADOON, DESIGNING WOMAN), dove l'ironia della sorte consente provvisoriamente l'accordo fra il sogno e la realtà. Ed infine, in modo aspro e disperato nei drammi (LUST FOR LIFE, SOME CAME RUNNING, HOME FROM THE HILL) dove sogno e realtà si distruggono vicendevolmente, conservando dell'opera e dell'artista soltanto il riflesso, la traccia del loro confronto”.

Questo confronto fra sogno e realtà è ancora ben presente in questo NINA, incontro fra una servetta aspirante attrice (Liza Minnelli) ed una contessa decaduta, maestra di vita dalle aspirazioni ormai deluse (Ingrid Bergman). Cosi come non sfugge nemmeno al più disattento degli spettatori la portentosa padronanza dell'uso del colore (gli interni dove la stessa tinta, scomposta in mille variazioni, tono su tono, conduce il personaggio all'interno dell'ambiente, avviluppandolo letteralmente), o l'uso ricchissimo e significativo della decorazione, con i medesimi intenti.

Per quale ragione quindi questo film produce quell'effetto sottile di indifferenza, se non addirittura di sopore? Io credo che è molto difficile, forse anche dopo molti anni di guerre difficili, non scivolare dalla creazione alla decorazione, dalla favola all'operetta, dal dramma al melodramma. Visconti, anche nell'ultimo L'INNOCENTE pur cosi carico di oggetti e di effetti decorativi, ci riesce. Minnelli, no. Forse perché il cammino ideologico dell'italiano è stato più sofferto e coerente, forse perché il modo del cinema americano, con le sue imposizioni produttive, con la politica dei grandi studios dei quali Minnelli è stato uno dei capisaldi, non poteva consentire ad un artista altra alternativa.NINA è la fine di un sogno per il regista che nel sogno ha sempre voluto fuggire: mai ritorno alla realtà è stato più brutale.


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